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Rituali terapeutici nella Valle dell’Aniene, nel reatino e nel viterbese

Nell'ambito dei rituali magico-terapeutici in territorio laziale, scomparsi o ancora praticati in luoghi di culto durante festività religiose popolari, sono state selezionate, come importanti esempi di continuità e riadattamento di modelli culturali diversi, quattro tipologie di cerimoniali, messi in atto per scopi curativi o protettivi attraverso l’impiego di vegetali, roccia, fuoco e acqua. I luoghi d’interesse, situati nelle province di Roma, Rieti, Viterbo, con riferimenti anche all’Abruzzo, si prestano bene a mettere in luce sotto l’aspetto diacronico la profondità temporale dei riti, come si sono diffusi e stratificati nel corso del tempo, in modo sincretico con altri apporti religiosi, e sotto l’aspetto sincronico la persistenza di comportamenti, di credenze e di valori delle comunità che ancora li esprimono nel loro attuale contesto culturale. Ciò che unisce in modo trasversale le realtà proposte sono le manifestazioni di una “religiosità popolare”, conformata su ampi retaggi di origine pagana e caratterizzata da una complessità di pratiche magico-rituali, volte a fronteggiare le negatività e, nel caso specifico, a salvaguardare i vitali bisogni di protezione, salute e fecondità dell’individuo e della società. Ancora oggi, seppure in forme residuali, permangono presso culture popolari usanze legate a terapie magiche, che spesso si intrecciano con richieste di aiuto rivolte al santo taumaturgo o ad altra divinità, anche perché “la malattia viene sovente simbolizzata con l’aggressione di forze ostili, di spiriti o potenze esterne” (1). Fino ad un recente passato, dominato lungamente da precarietà e povertà assolute, non vi fu altra medicina per larghissimi strati sociali, non solo subalterni. In questa lotta per scongiurare la crisi sempre incombente e conservare gli equilibri fondamentali per l’esistenza, non facile è stato il rapporto tra il mondo popolare e quello ecclesiastico, con le sue istanze evangelizzatrici ed egemoniche. La Chiesa cattolica ha preso sempre posizione contro le credenze magiche, le ha condannate e ove ha potuto le ha estirpate in quanto incompatibili con la dottrina cristiana, mentre ha promosso una politica più tollerante nei confronti di quelle ritualità conciliabili con il culto liturgico, che poi ha assimilato al suo interno, specie per ottenere largo consenso presso popolazioni che in esse si identificavano. Gli interventi repressivi della Chiesa però non sono riusciti a sradicare del tutto ataviche consuetudini magico-religiose inerenti molti aspetti della vita e, sebbene smembrate e ricontestualizzate in un diverso orizzonte cultuale e culturale, sono in parte giunte sino ai nostri giorni. È questo un fenomeno che, al di là degli specialisti di antropologia religiosa, sta destando a livello nazionale crescente interesse presso una folta schiera di appassionati e cultori, mossi principalmente dal desiderio di ricerca, di tutela e di riappropriazione di radici e valori fondanti una collettività, entro cui riconoscersi e riscoprire proficue forme di aggregazione e coesione. Una diffusa sensibilità storico-religiosa sta alla base del grande recupero del nostro patrimonio materiale e immateriale, da conservare come memoria di pensieri e comportamenti di comunità contemporanee ben determinate e in grande trasformazione.

Un rito di guarigione dell’ernia:
la passata di Subiaco

La chiesa di San Giovanni dell'Acqua
La chiesa di San Giovanni dell'Acqua. Subiaco (RM) 23-6-2007. Qui si svolgeva, nella notte del 24 giugno, il rituale della passata per la terapia dell'ernia.

 

Nell’alta valle dell’Aniene, a metà strada tra Subiaco e il paese di Jenne, è situata a 778 metri una piccola cappella dedicata a San Giovanni Battista, più nota nel circondario con il nome di San Giovanni dell’Acqua, in ricordo del miracolo operato da San Benedetto, che fece sgorgare nei pressi una sorgente per le esigenze della comunità monastica, facente parte di uno dei tredici cenobi da lui fondati in questo territorio nei primi decenni del VI secolo (2).  Il posto è boscoso e ubicato nel fianco destro della profonda vallata, solcata nelle strette gole dalla forte corrente del fiume Aniene.

1989
Interno della chiesa di San Giovanni dell'Acqua. Subiaco 1989

Qui il pomeriggio del 23 giugno, vigilia della festa di San Giovanni, si recano numerosi fedeli provenienti da Subiaco, Arcinazzo Romano e Jenne “per far visita al santo”, secondo un’espressione locale, per celebrare la ricorrenza del suo dies natalis e per partecipare alla processione notturna, che termina con la celebrazione eucaristica. Nel passato la notorietà di questo luogo di culto, in cui si svolgevano nella notte del solstizio d’estate pratiche magico-terapeutiche per la cura dell’ernia, richiamava molti altri fedeli provenienti da paesi anche più lontani, come Agosta e Marano. I pellegrini giungevano a piedi, percorrendo mulattiere e sentieri di montagna e pernottavano all’aperto o dentro la piccola chiesa, sulla scia dell’antichissima tradizione dell’incubatio, ancora nel decennio successivo al dopoguerra. Oggi la manifestazione religiosa avviene in forma canonica, dal punto di vista liturgico, ma fino agli anni Sessanta del secolo scorso in questa festività si eseguiva un complesso cerimoniale di magia arborea per la terapia sacrale dell’ernia, l’unico di cui si ha notizia nel Lazio.

Rito della passata arborea a Noci (BA), 1993
Un uomo prepara ,sull'albero, il ramo che sarà utilizzato per il rito di guarigione dell'ernia infantile. Santuario della Madonna della Croce, Noci (BA), 3 maggio 1993.

Il rituale della passata, riguardante i bambini erniosi, ci è giunto da un tempo molto lontano e ha trovato una amplissima diffusione in area mediterranea ed europea, con diverse varianti e usanze, ma con unico denominatore comune e medesimo fine terapeutico. Attraversando i secoli, è giunto fino a noi quasi con le stesse modalità con cui già si praticava nel mondo greco-romano. I bambini affetti da ernia infantile, identificata nel prolasso e nell’ernia dello scroto ed anche nell’idrocele, comunque in relazione con l’area genitale, venivano portati in questo luogo per essere “passati” attraverso una fenditura ricavata in un piccolo albero di quercia. Un addetto, in base al numero delle richieste, tagliava in senso verticale il fusto di un querciolo, fino ad ottenere un’apertura sufficiente al passaggio dell’ernioso e per mantenere divaricate le due parti vi inseriva di traverso due assi di legno, similmente a quanto documentato nel 1979 dall’antropologa Annabella Rossi a Vallata (AV) per lo stesso rituale arboreo.

Rito della passata arborea a Noci (BA), 1993
Il rito arboreo. Santuario della Madonna della Croce, Noci (BA), 3-5-1993. Sopra i rami di una quercia, a tre metri di altezza, un familiare e due uomini, prossimi a stabilire un legame di comparatico, passano il bambino nel foro vegetale, come in una nuova nascita.

A Subiaco i genitori dei bambini destinati al rito, spesso a piedi scalzi e in atto penitenziale, già durante la processione manifestavano tutta la loro ansia e con forza invocavano il Battista cantando:
Evviva San Giovanni/Che è fratello a Dio/La grazia che chiedo io/Tu non me la negà”. Oppure “tu me l’hai da fà”, secondo un’altra maniera più diretta e quasi perentoria con cui ci si rapportava alla potenza. Poco prima della passata i bambini si bagnavano nella sorgente in modo integrale o parziale, per avere una benedizione in più, perché “chella era acqua santa, l’acqua de San Giuanni”. Allo scoccare della mezzanotte, ora fatidica per i sortilegi, si sentivano risuonare nell’oscurità del bosco voci eccitate, che gridavano “alla cercia, alla cercia” oppure “alle pampane, alle pampane” e ogni genitore era accompagnato da un conoscente, prossimo compare o comare, presso l’alberello aperto ad arco. Posti uno di fronte all’altro, per tre volte passavano orizzontalmente il bambino nudo attraverso la divaricazione, recitando la formula magica:“Tè compà, te so datu nu figliu paganu e mi ju si fattu cristianu”, mentre l’altro, nel restituirlo allo stesso modo, rispondeva: “Tè commà, mi si datu nu figliu paganu e ti ju so fattu cristianu” (3). Seguiva la recitazione del Credo “proprio come quando se stanno a battezzà” e di una rinascita doveva trattarsi, di una restituzione a nuova vita, in senso biologico. Gli operatori, per suggellare il nuovo rapporto di parentela, determinato dal comparatico extraliturgico, dicevano: “Compare e San Giuanni, bacimmoci le mani, le mani ci bacimmo e compari ci facimmo”, poi seguiva il bacio vero e proprio. Il vincolo che si era così instaurato durava tutta la vita e aveva grandissima importanza, tanto che il compare di San Giovanni era equiparato a quelli di battesimo, comunione e cresima. A conclusione del rito si procedeva a rinsaldare le due parti tagliate dell’albero con una legatura, “la ‘ngommatura”, in modo da ripristinare la forma del fusto, e la grazia della guarigione avveniva solo se la pianta tornava a vivere, a germogliare. Nel caso si fosse seccata bisognava ripetere l’intera operazione l’anno successivo, con le stesse modalità. Nella piccola cappella si conservano ex voto che attestano il ringraziamento per la sparizione del male e fino a prima dei restauri, effettuati nel 1990, era appeso anche un cinto di gomma, che inequivocabilmente indicava il tipo di risanamento ricevuto. Negli ex voto sono raffigurati bambini maschi, con un’età variabile da alcuni mesi ad alcuni anni e, secondo le informazioni raccolte, tutti con una lesione già in atto. Anche qui, pur rappresentando delle eccezioni, vi sono stati casi di bambine e perfino signorine “passate” per un’ernia di altra natura, così come non si possono escludere interventi a scopo preventivo, per esorcizzare il male futuro.

Rito della passata arborea a Noci (BA), 1992
Il rito arboreo. Santuario della Madonna della Croce, Noci (BA), 3-5-1992. Il bambino veniva fatto passare per tre volte attraverso un rametto di quercia, tagliato a metà in senso longitudinale e divaricato ad arco. Il procedimento richiedeva molta attenzione, per evitare di spezzare l'apertura vegetale, perché diversamente l'intera operazione si doveva ripetere daccapo con un nuovo ramo. A questo fine le due estremità opposte della spaccatura venivano rinforzate con una salda legatura.

 

Rito della passata arborea a Noci (BA), 1992
Legatura del ramo. Santuario della Madonna della Croce, Noci (BA), 3-5-1992. Dopo i tre passaggi il ramo veniva accuratamente legato, per far riunire in breve tempo i lembi tagliati. Alla sorte del fuscello era infatti affidata la guarigione del bambino. Solo se il rametto fosse tornato a germogliare il risanamento sarebbe avvenuto, viceversa il male non sarebbe regredito e l'anno successivo il rituale andava replicato.

 

Le fonti storiche più antiche del rito si possono rintracciare, oltre che in un testo hittita, dove si fa riferimento ad un passaggio di un uomo in un arco di canna per riacquistare la virilità, in un passo del libro De Agri Coltura di Marco Porcio Catone, anche se in parte la sua comprensione rimane non del tutto chiara, e in specie nel De Medicamentis di Marcello di Bordeaux, medico di Teodosio il Grande, IV-V secolo d.C. Costui infatti prescrive: “Se ad un bambino di tenera età scende l’ernia, fendi nel mezzo un ceraso novello che deve restare nelle sue radici, in modo tale che il bambino possa essere fatto passare attraverso la fenditura. Indi ricomponi le parti dell’alberello e spalmalo con letame di bue e con altri impacchi, affinché le parti separate più facilmente si ricongiungano. Quanto più presto l’alberello si unirà e il taglio sparirà, tanto più presto l’ernia del bambino giungerà a guarigione”(4).
Il rituale, le cui testimonianze documentali si riscontrano ancora in tutta l’età medievale ed oltre, aveva lo scopo precipuo di scongiurare l’impotenza maschile e di restituire la capacità del vigore sessuale e della procreazione, messe a repentaglio dalla malformazione scrotale. Per questo era destinato ai bambini, che diventavano di frequente erniosi per lo sforzo del parto e in termini dialettali si usava la colorita espressione “ce s’ha calatu ju pallone”, intendendo la fuoriuscita del testicolo dalla sua sede naturale. Il rituale, come si evince anche dalla formula della passata, “risiede nel simbolismo di nuova nascita e di rigenerazione” con “la stimolazione di un rapporto simpatico-animistico fra pianta e uomo, nel quale rapporto il nucleo di soluzione del male sta proprio nella funzione attiva e vivente della pianta” (5). L’esito positivo era quindi strettamente legato alla vita dell’albero, con cui l’individuo condivideva una parte importante della sua storia personale e del suo intimo sviluppo esistenziale. L’idea di rinascita era ben presente tra gli stessi operatori, che erano consapevoli di attuare un rinnovato battesimo, suggerito in questo luogo anche dalla figura del Battista, e la ripetuta gestualità rituale alludeva con evidenza ad un nuovo parto. Nonostante ciò la partecipazione alla festività religiosa con i suoi riti liturgici non era avvertita come determinante per l’attuazione e la riuscita del cerimoniale arboreo. Libero era il rapporto con San Giovanni, “che è il padrone dell’ernia” e “se sì devoto o religioso” e “c’hai ‘na cercia in campagna, la spacchi e a mezzanotte ju passi alla cercia”. Il localismo non era considerato del tutto vincolante e quando i benedettini sublacensi alla fine degli anni Cinquanta si imposero per sopprimere il rito pagano, ricorrendo anche al taglio delle stesse querce, un po’ come avvenne nell’Alto Medioevo con l’abbattimento degli alberi sacri delle foreste germaniche, questo continuò almeno per un altro decennio nelle campagne di Subiaco e di Arcinazzo Romano, nella stessa cadenza calendariale. Ecco dunque che si inserisce nel contesto rito-festa la cruciale notte di San Giovanni, ritenuta presso le civiltà antiche e nella tradizione popolare magica per eccellenza, favorevole ai presagi e ai prodigi, dispensatrice di particolari virtù e di benefiche influenze. La festa liturgica, con la sua posizione solstiziale in sostituzione della celebrazione pagana di Fors Fortuna e di un remoto culto agrario e solare, non poteva non assorbire antiche usanze e credenze tendenti alla rigenerazione (6). Riti che si sono conservati nei secoli, incentrati nel mito della morte-rinascita della vegetazione e della fecondità-fertilità della natura e degli uomini. Il ritrovamento presso la località di San Giovanni dell’Acqua di un cippo dedicato al dio italico Silvano da parte del liberto Azio Dionisio, che aveva ottenuto la libertà, attesta l’antichità dell’area sacrale e il culto della natura selvaggia in questo luogo in epoca romana. L’epigrafe latina scolpita così recita in segno di ringraziamento:

Sancto Sylvano votum ex viso
Ob libertatem
Sextus Attius Dionysius
Sig (Signum) cum base D.P. (donum posuit) (7).

Cippo del dio Silvano nel Sacro Speco di Subiaco. 2010
Subiaco 2010. Il cippo del dio Silvano oggi.
Cippo del dio Silvano nel Sacro Speco di Subiaco, 1977
Subiaco 1977, il cippo del dio Silvano come si presentava

Della statua non si sa nulla, mentre il cippo è conservato nel monastero di San Benedetto di Subiaco. Anche se non si può escludere che il rituale arboreo sia giunto dall’esterno in epoca relativamente recente, appare più probabile l’ipotesi che sia stato qui presente fin da un’età molto antica, forse tardo romana o altomedioevale. Poco plausibile invece è che il rito abbia avuto qualche rapporto diretto con il culto di Silvano, dio della vegetazione, della fecondità della natura, oracolare e pronto alla metamorfosi, ma pericoloso sia per le donne, tanto che ad esse non era lecito presiedere al culto, sia per i neonati. Era venerato inoltre come dio dei confini, per questo era nominato santo e protettore degli schiavi, che diventavano liberti con la cerimonia che terminava con la frase “siedano gli schiavi e si rialzino liberi”. Onorata dagli schiavi affrancati era pure l’ italica dea Feronia, protettrice dei boschi e delle sorgenti, il cui culto era ben vivo in questo incantevole ambiente montano, come rammenta il locale toponimo Morra Ferogna, che sta ad indicare una grande rupe svettante sul fianco dei Monti Simbruini, poco oltre Subiaco. Nell’alta valle dell’Aniene chi, meglio della figura anacoretica e “pastorale” di San Giovanni Battista, poteva essere maggiormente accolto dalle plebi contadine e popolari al posto del dio della natura primigenia, ormai decaduto?
Seguendo la parabola storica di Silvano, è interessante ricordare in questo contesto il seguente scongiuro medievale, incentrato sulla potenza salvifica dell’acqua benedetta nei confronti del venefico morso del serpente, additato come figlio del diavolo e discendente di Silvano, la cui immagine classica appare ora degradata a quella di un demone. L’historiola aquinate del XII secolo in lingua volgare costituisce “una sorta di copione di una cerimonia di ‘trasferimento’ del male, per cui san Sisto, fortificato dall’acqua benedetta, potrà assumere in sé il veleno del serpente”, salvando il cristiano. Elementi e concetti che ritroviamo diffusi nelle pratiche terapeutiche popolari, di ieri e di oggi, fondate sull’uso idrico per la salvaguardia della salute e sull’idea che il male si può scacciare, passandolo ritualmente ad altri soggetti.
In nomine Patris et Filii et Spiritus sancti amen.
Christus et Sanctu Petru et Sanctu Sistu
per via andabano.
Dixe Christus:
«Voce audivi».
Dixe Santu Petru:
«Et eo l’audivi».
Dixi Santu Sistu:
«Et eo l’audivi».
Dixe Christus:
«Babe [vai] Sistu».
Gìo [andò] Sistu
et tornao ad Christus.
Dixe Cristus:
« Que novella, Sistu? ».
«Sire, ria:
ka lu fillu de diabulo, nepote de Silvano
à mocce[ca]tu lu cristianu».
Dixi Christus :
«Figi pedi [fermati], Sistu.
Petru adducca [porti] l’aqua
e Christus la benedica
et Sistu la beva,
ka aduxe lu mandatu [che portò il messaggio]:
sanu sia lu christianu
ke nd’è mozecatu».
I versi trascritti sono fedeli al testo pubblicato da Maria Luisa Meneghetti nel 2012 (8) e a lei appartiene la citazione riportata.

Rituali dell’acqua e del fuoco
nella notte di San Giovanni

Ortona dei Marsi (AQ), fuoco di San Giovanni, 1999.
Ortona dei Marsi (AQ), fuoco di San Giovanni, 1999.

La notte di San Giovanni Battista, particolarmente favorevole ai rituali magici per la sua posizione solstiziale, che la pone tra le feste d’inizio d’anno o di stagione, conserva molte credenze provenienti da una remota festa dalla forte connotazione agricola e solare, caratterizzata da “pratiche divinatorie, lavacri di purificazione, falò rituali, raccolta notturna della rugiada e di erbe benefiche, cerimonie in cui si allacciano quelle nozze simboliche che sono i legami di comparatico” (9). Ai fuochi di San Giovanni, presenti ancora oggi in molte regioni italiane ed europee, era affidata anche la funzione di scacciare demoni e streghe e di sanare taluni mali fisici, come ad esempio in Sardegna la rogna e i dolori addominali (10). Sui fuochi accesi si saltava “per guarire e proteggersi dalle malattie”(11).

Barisciano, Salti sul fuoco 2015
Barisciano, (AQ), 2015. Salti sul fuoco di San Giovanni.

Allo stesso modo l’acqua era considerata, in questa eccezionale notte, ricca di proprietà curative. Nel borgo di San Giovanni, frazione di Sante Marie, presso Tagliacozzo, ancora una ventina di anni fa giungevano nel primo mattino del 24 giugno numerosi fedeli dai paesi limitrofi, per compiere abluzioni in una vicina sorgente, con l'intento di proteggersi dalla rogna e di conservare una pelle intatta. Con lo stesso fine si bagnavano parti del corpo con la rugiada dei campi e riportavano a casa fascetti di erba umida, insieme a bottiglie d’acqua, per i bambini, familiari e conoscenti. Oggi la tradizione di cospargersi l’acqua di San Giovanni non è del tutto scomparsa, anche se è perpetuata essenzialmente dagli abitanti del posto, che, dopo la messa, si lavano mani e viso in una vaschetta maiolicata e si fanno il segno di croce con l’acqua che cade dalla statua del santo, posta in una nicchia di nuova costruzione. Un pallido ricordo di come nel passato si vivevano insieme i momenti sacrali, scanditi dalla ciclica rotazione naturale. Di più ampio richiamo sono le acque terapeutiche di San Franco, scaturenti nel naturale santuario montano di Assergi (AQ), dove convergono il 13 agosto numerosi fedeli, provenienti anche dal teramano. Acque, secondo il racconto popolare, originate dal santo eremita e ritenute efficaci contro la rogna, la scabbia e ogni altra affezione dell’epidermide, conformemente ad una casistica piuttosto diffusa.

Fra tanti luoghi laziali in cui sopravvivono vecchie tradizioni all’interno della festa liturgica di San Giovanni, di particolare interesse è il paese di Arcinazzo Romano, in cui permangono riti terapeutici imperniati sull’acqua e sul fuoco, elementi che simboleggiano rispettivamente la luna e il sole e a cui sono espressamente collegati. Nei balconi, negli orti, fuori l’uscio di casa, si lasciano all’aria della notte del 24 giugno recipienti con acqua e petali di rose, per raccogliere la rugiada che cade dal cielo. Al mattino con l’infusione floreale, colma di virtù cosmiche, si lavano soprattutto i bambini, per prevenire malattie cutanee e per rendere la pelle più sana e vellutata. Per lo stesso motivo un tempo ci si rotolava, quasi nudi, nei prati bagnati dalla guazza notturna e nell’erba umida si facevano passare le mandrie e le greggi, per profilassi.

Lavacro del viso con l'acqua della notte di San Giovanni.Arcinazzo Romano (RM), 24-6-1985. Al mattino del 24 giugno ci si lava il viso con acqua e petali di rose, in recipienti lasciati sotto il cielo della notte, per raccogliere la rugiada, ritenuta piena di proprietà curative per la pelle.
Lavacro del viso con l'acqua della notte di San Giovanni.Arcinazzo Romano (RM), 24-6-1985. Al mattino del 24 giugno ci si lava il viso con acqua e petali di rose, in recipienti lasciati sotto il cielo della notte, per raccogliere la rugiada, ritenuta piena di proprietà curative per la pelle.

Nella Marsica, gli abitanti di Bisegna all’alba del 24 giugno si recano a piedi alla sorgente di San Giovanni, annualmente benedetta dal sacerdote, per compiere riti acquatici, al fine di preservare la salute della pelle e ricevere una purificazione dai peccati. Una compagnia di Trasacco per antica tradizione, risalente al 1818, partecipa ai festeggiamenti e tra i gruppi dei due paesi vi è un solido rapporto di amicizia, rafforzato da legami di comparatico, che avviene “bagnandosi le mani nell’acqua di San Giovanni e stringendole” (12). Anche nel santuario montano della SS. Trinità di Vallepietra (RM), specie nel giorno della festa religiosa, si preleva acqua sorgiva, “santa e benedetta”, per le persone bisognose di aiuto e nel ruscello sottostante era abbastanza frequente stringere vincoli di comparatico. Due persone, che volevano diventare compari o comari, univano i mignoli della mano destra dentro la corrente, recitando il Credo, poi a vicenda facevano il segno di croce rivolto verso l’altro e infine si baciavano le mani. Il rito del comparatico extraliturgico, seppure con modalità un po' diverse rispetto a prima, viene ancora praticato dai pellegrini laziali, cui attribuiscono grande importanza per i valori di profonda amicizia e di reciproca solidarietà che stanno alla base del rinnovato rapporto interpersonale.

Ad Arcinazzo Romano, fino a qualche anno fa, nella notte di San Giovanni si accendevano piccoli fuochi nelle piazzette dei vari rioni, per compiere un vero e proprio rito magico, rivolto esclusivamente ai bambini di ambo i sessi. L’antico rituale con il fuoco, verso cui si facevano oscillare i fanciulli, aveva la funzione di esorcizzare la malattia del rachitismo infantile, fenomeno abbastanza frequente in un passato non troppo lontano per la estesa malnutrizione, e di favorire una corretta crescita. Per l’accensione del fuoco si raccoglievano foglie e rametti sparsi per terra in occasione della processione del Corpus Domini, che, con il solo passarvi sopra, si riteneva rendesse le verzure benedette, quindi sacralizzate ed efficaci per i rimedi di ordine psicofisico. Una volta raccolte in abbondanza venivano conservate nella chiesetta di Santa Lucia fino al momento dell’accensione. In questa notte i bambini, afferrati per le braccia, si dondolavano verso “ju foco santu”, con la recitazione della seguente formula:

“Sballeca, sballeca San Giuanni,                           “Supera, supera San Giovanni
te puzzi fa più ranne,                                               ti potessi fare più alto,
più ranne deju campanile,                                      più alto del campanile,
sballeca, sballeca San Giuanni”.                             Supera, supera San Giovanni”.

Quando le fiamme erano alte il bambino un po’ più sviluppato, saltandoci sopra, doveva dire:“San Giuanni meo (tre volte) famme cresce’ de più”, quando le fiamme erano più basse la persona che lo dondolava recitava: ”San Giuanni meo (tre volte) fa’ cresce’ questo bambino”.

Dondolamento di un bambino al "fuoco santo". Arcinazzo Romano (RM), 23-6-1991. Nella notte di San Giovanni i bambini piccoli venivano dondolati in direzione del fuoco per scongiurare la malattia del rachitismo.
Dondolamento di un bambino al "fuoco santo". Arcinazzo Romano (RM), 23-6-1991. Nella notte di San Giovanni i bambini piccoli venivano dondolati in direzione del fuoco per scongiurare la malattia del rachitismo.
Bambini che saltano sul "foco santo". Arcinazzo Romano (RM),24 giugno 1986. Nella notte di San Giovanni i bambini saltavano sul fuoco o venivano dondolati per scongiurare il rachitismo e crescere più alti.
Bambini che saltano sul "foco santo". Arcinazzo Romano (RM),24 giugno 1986. Nella notte di San Giovanni i bambini saltavano sul fuoco o venivano dondolati per scongiurare il rachitismo e crescere più alti.

Il rito era come un gioco e richiamava gruppi di ragazzi, che animavano con dolce rumore l’inizio dell’estate, facendo anche a gara a saltare sopra le fiamme, per dimostrare coraggio e mettersi in competizione. Nella notte del 24 ad Arcinazzo si può ancora assistere all’uso di mettere in una brocca di acqua una chiara d’uovo, in altri luoghi cera e piombo fusi, per trarre al mattino vaticini sulla buona o cattiva sorte, riguardante il matrimonio di una figlia o il mestiere del futuro sposo, attraverso la forma assunta dall’albume dentro il recipiente di vetro. L’usanza, pur con il suo significato originario, oggi resta solo come una simpatica curiosità per la vivida fantasia dei bambini.

Rituali terapeutici idrici

Prelievo di acqua del fiume Liri, Civitella Roveto1985
Una donna attinge acqua nel fiume Liri. Civitella Roveto (AQ), 24 giugno 1985. Nella notte del 24 giugno, festa di San Giovanni Battista, i devoti si bagnano nel fiume Liri, o ne attingono l'acqua, ritenuta, solo per quelle ore notturne, terapeutica e miracolosa.

Non vi è regione italiana che non annoveri nel passato lontano o recente acque sorgive ritenute particolarmente miracolose, per essere state originate da interventi soprannaturali. Fonti, sorgenti, laghetti e perfino torrenti e fiumi, hanno assunto, secondo antiche tradizioni locali, peculiari virtù terapeutiche, per l’azione prodigiosa di un santo che ha fatto scaturire le polle d’acqua o per aver santificato quel sito in vita, con la sola sua presenza.

Bagno rituale nel Liri. Civitella Roveto (AQ), 24 -6-1984.
Bagno rituale nel Liri. Civitella Roveto (AQ), 24 -6-1984. Nella notte di San Giovanni, per antichissima tradizione la popolazione di Civitella Roveto va a bagnarsi nel fiume Liri, certa di ricevere dalle abluzioni energie salutari e aiuti terapeutici. Molti prelevano l'acqua, benedetta dal Battista, con secchi e bottiglie, per se stessi o per i familiari e conoscenti rimasti in casa.

 Al riguardo una realtà molto significativa, anche per essere straordinariamente attuale, è costituita dalle abluzioni purificatorie nel fiume Liri da parte della popolazione di Civitella Roveto (AQ) durante la notte del 24 giugno. A frotte ci si lava nella corrente gelida dopo un segno di croce e con devozione si bagnano più volte parti malate del corpo, nella certezza che l’acqua del fiume, benedetta dal patrono San Giovanni, produca effetti salutari e curativi. Ma ciò ha un tempo di breve durata, perché i primi raggi del sole che illuminano la superficie liquida fanno svanire le qualità benefiche dell’acqua, ed essa “non vale più, non è più buona”, come dice la gente. In questa notte l’acqua del Liri viene d’abitudine prelevata per lavare i bambini rimasti a casa e perfino per essere bevuta e portata a persone impossibilitate a recarsi lungo le rive per compiere lavacri.

Abluzioni nell'acqua del Liri. Civitella Roveto (AQ) 24-6-1985.
Abluzioni nell'acqua del Liri. Civitella Roveto (AQ) 24-6-1985. Solo nella notte del 24 giugno e comunque prima che i raggi del sole raggiungano il fiume è possibile ottenere benefici dall'acqua : poi tutte le sue virtù svaniranno immediatamente. I bambini ricevono amorevoli attenzioni da parte dei genitori, fiduciosi che l' " acqua di San Giovanni " possa portar loro ogni bene e salute.

 Qui, come in altri fiumi d’ Abruzzo, i fedeli a volte si immergevano integralmente, in un ideale battesimo fluviale, e nell’acqua “stringevano legami di comparatico in nome di San Giovanni” (13). Questi usi e comportamenti rituali, vivi più di quanto comunemente si creda, si manifestano da tempi secolari negli spazi sacri dei santuari o in semplici luoghi di culto, la cui fondazione rimanda spesso a fatti leggendari legati all’acqua, che ritroviamo centrale in molte cerimonie e feste agro-pastorali. Si va per lo più nel giorno della festa religiosa a prendere l’acqua alla sacra fonte e nel tempo massimo della partecipazione collettiva, con la moltitudine di persone che esalta l’importante momento corale. È forte desiderio comune riportare a casa bottiglie d’acqua benedetta per se stessi, ma soprattutto per chi non è potuto andare e in particolar modo per gli ammalati, che spesso ne fanno espressamente richiesta, nella convinzione di ricevere un sollievo morale e un aiuto per la guarigione. Nel bisogno ci si sostiene a vicenda e il prezioso dono idrico è sempre accompagnato da buone parole, piene di calore umano e speranza. E’ proprio questa rete di solidarietà e di estesi rapporti sotto una comune fede a costituire un altissimo valore antropologico, che consente di superare l’alienante solitudine del nostro tempo mediante relazioni umane vivificanti e gratificanti. Acqua santa per tutte le malattie, ma anche per specifiche patologie, ritenuta in grado di operare veri e propri miracoli, con l’aiuto della fede e con l’intercessione di un potente taumaturgo, come San Famiano (1090 – 8 agosto 1150), patrono di Gallese (VT), a cui si ascrivono portentosi prodigi. L’iconografia ricorrente ce lo mostra mentre con il bordone fa scaturire dal suolo acqua fresca per dissetarsi, in ricordo del suo primo miracolo avvenuto nel territorio di Gallese il 17 luglio 1150, nel luogo oggi denominato San Famiano a Lungo.

Chiesa di San Famiano a Lungo. Gallese (VT),17-7-2012.
Chiesa di San Famiano a Lungo. Gallese (VT),17-7-2012. Ogni anno molti gallesini si recano alla chiesa campestre di San Famiano a Lungo, con annessa una sacra fonte, per venerare e ricordare il Santo patrono, autore, il 17-7-1150, del miracolo di aver fatto sgorgare l'acqua.

Qui probabilmente pochi anni dopo la sua morte è stata costruita una chiesetta, più volte ristrutturata nel tempo, al cui interno è stata inglobata la miracolosa sorgente, per preservarne l’integrità. L’antico pozzetto, per maggior tutela, è oggi protetto da un rivestimento di lastre metalliche chiuse da lucchetti. Durante l’anno vi si recano molti gallesini e abitanti del circondario, ma è nel giorno dell’anniversario del 17 luglio che affluiscono in folto gruppo i fedeli. Alle prime luci dell’alba numerose persone vanno in pellegrinaggio alla sacra fonte distante tre chilometri dalla cittadina, per assistere alla messa e prendere acqua santa da portare via. Nel breve tragitto si recita il rosario e si ascoltano le meditazioni evangeliche del parroco. Già durante la celebrazione eucaristica una fila di persone pazientemente attende il proprio turno con bottigliette in mano per riempirle alla fonte, cosa che secondo la siccità estiva richiede a volte un tempo davvero estenuante per la fuoriuscita goccia a goccia, come è stato nel 2012. Eppure la gente raccoglie quel filo di acqua con grande devozione per i propri bisogni corporali e spirituali e per le persone ammalate in attesa del prezioso liquido. C’è chi la beve subito nel ristrettissimo spazio dove si attinge da un rubinetto, davanti all’immancabile figura dipinta del santo nell’atto di far zampillare l’acqua, con la rassicurante iscrizione:

“Percosse un sasso e
una piscina nacque,
correte infermi a
risanarvi all’acque”.

C’è anche chi si bagna con le mani parti del corpo per trarne benefici a scopo preventivo o curativo, comunque terapeutico.

D’altronde è la stessa sua origine “non naturale” ad aver creato fenomeni inspiegabili e prodigiosi, che inevitabilmente nei secoli hanno toccato nel profondo l’animo della gente e alimentato particolari aspettative devozionali. Così scrive nel 1723 Splendiano Andrea Pennazzi: “… Entro al lato destro di essa nell’ingresso verso ponente si vede il Fonte, le cui acque sempre si conservano senza crescere, o diminuirsi quando si prende. Per maggiore commodità del popolo scavarono un piccolo pozzo contiguo alla muraglia esteriore di quella Chiesuola per condurvi la sudetta acqua, ma poco vi durò, perché l’acqua da se ritornò alla sua prima scaturiggine, non mutando il suo luogo antico miracoloso…” (14). Un’anziana signora, in attesa di prendere l’acqua, così si è espressa nel luglio 2012, bene interpretando il comune sentimento popolare: “Noi crediamo nei miracoli di San Famiano. La portiamo anche ai parenti, alla famiglia, a chi non sta qui, a persone malate. Abbiamo questa fede nel credere che anche attraverso l’acqua San Famiano possa aiutarci”. Questo rapporto di grande affezione con il santo è riassunto efficacemente nel ritornello della canzone L’arcana voce, composta nel 1937 da Domenico Pandolfi e Gaetano Iodice, che recita:

“O Famiano, a te cantiamo
il sincero nostro affetto;
noi devoti t’invochiamo
confidando nel tuo amor!”(15).

A testimonianza dei molti miracoli attribuiti a San Famiano, all’interno della chiesetta campestre si conservano foto e ringraziamenti di persone guarite e soprattutto innumerevoli ex voto nella basilica a lui intitolata, risalente al XIII secolo, che attestano una diffusione del culto travalicante i confini di Gallese. Il ricevimento di una grazia particolare, spesso relativa a malanni di ordine psico-fisico, è sentito come una speciale benevolenza da parte del santo, a cui in segno di riconoscenza e gratitudine ci si lega amorevolmente per tutta la vita.
Lo stesso San Famiano in punto di morte aveva lasciato detto che, se avessero conservato il suo corpo, avrebbero visto le meraviglie di Dio. Miracoli, che seguitano a manifestarsi e a richiamare molte persone. Al riguardo nel labaro del Palio del 2012 sono state simbolicamente raffigurate due recentissime guarigioni attribuite a San Famiano, mediante la forza della preghiera.
Un cittadino di Magliano Sabina si è ritrovato perfettamente risanato dopo una grave malattia, mentre una bambina di origine polacca ha avuto la grazia di uscire perfettamente ristabilita da un difficilissimo intervento chirurgico eseguito in una clinica di Colonia in Germania”(16).

Il Palio è il vessillo che sfila in processione e spetta in premio ad una delle sei contrade che gareggiano l’8 agosto, festa del santo patrono, con la secolare corsa equestre alla Stella, che una fonte scritta già annovera tra le manifestazioni del 1561. Esso compendia visivamente l’identità culturale, morale e religiosa di tutta la popolazione gallesina, che vi si riconosce e trae motivi di forza e di unità sociale. Alla processione con la statua del santo si unisce il corteo delle Zitelle, ragazze vestite di bianco che nel passato ricevevano una dote per sposarsi o entrare in convento, ma dal 1986 il beneficio dotale è diventato solo simbolico (17). Oggi il numero delle Zitelle è esiguo e variabile, comunque limitato a poche unità, ma fin dalla seconda metà del Cinquecento quelle con i requisiti idonei a ricevere la donazione tramite sorteggio erano numerose e facevano capo alla Confraternita del SS. Rosario.

Le grotte di San Michele Arcangelo
e il rito della litoterapia

Grotta di San Michele Arcangelo. Montorio in Valle di Pozzaglia Sabina (RI), 9-5-2009.
Grotta di San Michele Arcangelo. Montorio in Valle di Pozzaglia Sabina (RI), 9-5-2009.

Nella valle del Turano, quasi a mille metri di altezza, troviamo nascosta tra i boschi e alla base di un costone roccioso una grotta intitolata a San Michele Arcangelo, chiusa in passato nel lato di accesso con un’alta parete di pietre locali. Il sito ipogeo si colloca nel territorio di Montorio in Valle, frazione di Pozzaglia Sabina, in provincia di Rieti, distante un paio di chilometri dal centro abitato, con un percorso da fare a piedi nell’ultimo tratto. L’irregolare facciata esterna è modellata come una chiesa rupestre, con tanto di portale di ingresso sormontato da un arco a tutto sesto e di finestroni, per consentire una adeguata illuminazione interna. Mancano notizie storiche certe su quando e perché ha avuto inizio il culto di San Michele in questa cavità naturale, ma tutti gli elementi disponibili indicano che la sua frequentazione possa risalire in epoca medioevale. Il territorio di Montorio appartenne all’importante abbazia benedettina di Santa Maria del Piano, presso Orvinio, citata per la prima volta in documenti datati 1026 e 1062 e confinante con le estese proprietà fondiarie dell’abbazia benedettina di Farfa. Oggi quel che resta di Santa Maria è abbandonato e in deprecabile rovina, mentre ancora nel XV secolo il complesso monastico estendeva la sua influenza fino alle porte di Roma18. Nell’ampia grotta vi sono due altari, al di sopra di quello addossato nella parete di sinistra c’è la nicchia con la statua del santo, mentre nell’altro, in posizione più centrale, è incastonato un piccolo mosaico di tessere policrome di età medievale, probabilmente di scuola cosmatesca. In una rientranza dell’antro è stato posto in una teca un ossario, che, secondo la più ricorrente tradizione orale, custodirebbe i morti di colera dei secoli passati. “Da notare, scrive Andrea del Vescovo, che la gente di Montorio venerava qui anche i propri morti, quando il cimitero ancora non c’era, e questo ancora nel 1791” (19).
La fondazione leggendaria del culto racconta che sul Colle Mandrile, situato al di sopra della grotta, vi era un drago spaventoso e crudele, che l’Arcangelo sconfisse, schiacciandolo sotto i suoi piedi. Così recita l’interessante testo del canto, come è stato possibile ricomporlo dalla viva voce delle persone che lo ricordano:

1- Evviva San Michele/celeste campione/al drago fellone/la guerra intimò.
2- Lucifero in cielo/del sommo Creatore/al trono d’onore/superbo affrettò.
3- Il Duce celeste/dell’empio desio/fellone di Dio/la spada impugnò.
4- Il drago da spirito/d’inferno invasato/fu presto fugato/ed indietro tornò.
5- E mentre abbattuto/fuggiva fremente/un fulmine ardente/su di esso entrò.
6- A Colle Mandrile/c’è un drago ferale/su quel brutto animale/Michele trionfò.
Rit. Evviva San Michele/che è grande che è forte/sul mostro di morte/lui sempre trionfò”.

È probabile che il toponimo Colle Mandrile (recinto di muro per racchiudere i buoi), oltre a rimarcare il tipo di economia secolare del territorio, rimandi ad una qualche relazione con aspetti agro-pastorali del culto di San Michele, a tutela di armenti e bovini, sulla base di quanto avvenne sul Gargano l’8 maggio del 490 d.C. Si narra infatti che un vitello si allontanò dalla mandria e penetrò in una grotta difficilmente raggiungibile. Il padrone, visto ogni insuccesso di riportarlo a casa, gli scagliò delle frecce per ucciderlo, ma queste inspiegabilmente rimbalzarono sul corpo del torello. Il giorno dopo in quella grotta del Gargano apparve l’Arcangelo e chiese che lì sorgesse un santuario in suo onore. D’altronde gli stessi pastori, che per secoli si sono recati in Puglia per l’annuale transumanza, lo hanno proclamato patrono e protettore, diffondendone ulteriormente il culto nel centro Italia, come avevano fatto in modo più capillare i longobardi, quando lo elessero a loro difensore e a lui consacrarono cappelle, chiese rupestri, santuari e grotte, molte delle quali proprio in Sabina. San Michele è invocato contro i terremoti, i fulmini, le pestilenze e le forze demoniache, ma anche per il dono dell’acqua e per la salvezza delle anime che conduce al cielo, dopo averle sottratte all’ inferno con il rito ultraterreno della psicostasia. La tipologia dell’eremo di Montorio in quest’area laziale, vicina all’Abruzzo marsicano, non costituisce un caso isolato, perché non molto distante incontriamo altre grotte dedicate all’Arcangelo, come quella di Colli di Monte Bove, frazione di Carsoli (AQ), con cui presenta interessanti analogie relative ad alcuni rituali e di Varco Sabino, prospiciente il lago del Salto.

Grotta di San Michele Arcangelo di Colli di Monte Bove (AQ).
Grotta di San Michele Arcangelo di Colli di Monte Bove (AQ), 2000. Affreschi databili al XIII sec.

Particolarmente ricca nel sito turanense è stata la fioritura di leggende, che riguardano episodi riferiti a San Michele, specie se in lotta contro il maligno. Il racconto più noto e ricorrente ha come scenario un’altra grande grotta naturale poco distante dalla chiesa rupestre e visibile dal sentiero di percorrenza, chiamata “Il Grottone”. Qui l’Arcangelo avrebbe ingaggiato una lotta furibonda con il demonio, al termine della quale è volato al cielo da un’apertura creata con le sue ali, le cui impronte la gente vede stampate nella roccia, mentre il diavolo è rimasto dentro le viscere della terra. Un’altra pia leggenda narra che il diavolo avrebbe sfidato l’Arcangelo a creare nel tempo più breve la grotta più grande. Il celeste spirito accettò, concedendo anche una settimana di vantaggio, al termine della quale tornò e il diavolo non aveva fatto che una piccola cavità, allora San Michele con le ali dispiegate d’un colpo formò una spelonca di grande ampiezza, la stessa che poi ha accolto l’attuale eremo, a lui consacrato per aver sconfitto le potenze delle tenebre. Simbolicamente la vittoria della luce sulla oscurità. Ma le vicissitudini riguardanti San Michele non finiscono qui, perché in un tempo lontano gli abitanti della vicina Pietraforte rubarono la statua che stava a Montorio e la trasferirono nel loro paese, nascondendola sotto uno staio (20), per non farla trovare. Di notte però il santo volle ritornare nella sua chiesa e al suo passaggio gli alberi si piegarono verso di lui, in segno di rispetto. Da quel momento, visto il suo volere, restò per sempre nella primitiva sede. All’interno dell’antro, allo stesso modo di come si sente ripetere a Colli di Monte Bove, i fedeli dicono di udire nella zona più interna un rumore simile allo scorrimento di un ruscello sotterraneo, che la tradizione popolare tramanda essere quello del sangue dei santi martiri o degli innocenti. Un altro rilevante aspetto, dal punto di vista antropologico, è costituito da un’antica forma di litoterapia, ancora praticata durante la ricorrenza festiva di maggio, volta a sconfiggere il mal di testa . I fedeli di ogni età dentro la grotta fanno il segno di croce con la fronte sopra una vena calcarea, che scende dalla parete rocciosa di destra, a volte recitando preghiere, per prevenire e guarire emicranie.

Litoterapia. Montorio in Valle di Pozzaglia Sabina (RI),9-5-2009.
Litoterapia. Montorio in Valle di Pozzaglia Sabina (RI), 9-5-2009. L'antico rito della litoterapia è finalizzato alla cura del mal di testa.

L’impiego della pietra per la stessa patologia era in uso pure a Colli di Monte Bove, ma con modalità diverse e in relazione con una realtà alquanto stratificata dal punto di vista cultuale. La tradizione secolare nel sito abruzzese prevedeva per la terapia della cefalea l’inserimento della testa in un incavo della parete di fondo, dove si dice che la stessa Madonna avrebbe poggiato il capo, lasciandovi addirittura l’impronta della sua treccia di capelli. Tra le usanze scomparse vi era anche quella di ingerire, da parte di partorienti e puerpere, un po’di terra della grotta tramite cibi e acqua, per ricevere abbondante lattazione e guarigioni in genere. Inoltre per l’ipogalattia e per la cura della mastite le collesi si strofinavano sul seno piantine di Umbilicus rupestris colte nel sacro ipogeo e sorbivano un decotto ottenuto con lo stesso vegetale. Nella piccola grotta di Varco Sabino (21), che si affaccia a perpendicolo sui tetti del sottostante paese, non troviamo, a memoria popolare, specifici rituali terapeutici, mentre ancora vivo è il racconto della apparizione dell’Arcangelo in questo luogo e del furto della sua effigie lì riposta ad opera degli abitanti di Vallecupola, che avrebbero utilizzato una condotta sotterranea comunicante con la caverna, per non essere scoperti. Il santo però volle tornare a Varco e, per far si che ciò non si verificasse più, fece crollare nel passaggio enormi massi di pietra, che ne sbarrarono per sempre il transito. A differenza degli altri due siti ipogei, la sera della vigilia della festa di maggio si accende, nei pressi della ”rotte” di Varco, un grande falò chiamato ”ju faone o favone”, dalla forte valenza apotropaica.

La manifesta volontà dell’essere divino di voler risiedere in un determinato luogo, le sacrali impronte lasciate nella pietra a seguito di eventi miracolistici, il prelievo di pietre a scopo devozionale e protettivo e la stessa litoterapia sono fatti che appartengono ad una cultura arcaica, che ritroviamo diffusa in diverse aree dell’Italia centrale. In questo senso sono famosi altri luoghi di culto, come ad esempio la grotta-santuario di San Michele sul monte Tancia vicino Rieti, che fu oracolo pagano (22), l’eremo di San Venanzio di Raiano nell’aquilano e quello di Santa Colomba a Pretara nel teramano. A Montorio il pellegrinaggio all’eremo avviene nella festività di maggio, con la partecipazione di molti fedeli tornati dalle città per questa sentita ricorrenza. Nella grotta si celebra la messa al termine della quale si recita la preghiera al santo per chiedere aiuto e protezione, a cui fa seguito il bacio della statuetta portata dal festarolo di turno, mentre risuona tra le pareti rocciose il canto popolare con una suggestiva atmosfera. A fine mattinata c’è la tradizionale scampagnata sui prati circostanti per mangiare insieme e in allegria il cibo portato da casa, con momenti di forte aggregazione sociale. Nel pomeriggio avviene in chiesa il sorteggio per designare il nuovo festarolo, che conserverà nella sua casa la piccola statua dell’Arcangelo fino a settembre. È il signore della festa e la sua nomina è ritenuta un onore e una forma di prestigio per la famiglia. Le celebrazioni festive per San Michele riprendono a settembre e precisamente nella prima domenica, per la permanenza in paese di numerosi oriundi, prima dello spopolamento invernale. In questo giorno, dopo la Messa, esce la breve processione con la macchina del Santo portata dagli uomini e con il grande stendardo raffigurante l’Arcangelo vittorioso sul demonio. Aprono il corteo due file di bambini con le candele, seguono altre insegne religiose e la banda con il festarolo recante in mano la sacra immagine. Nel pomeriggio in chiesa ha luogo una doppia estrazione, per eleggere il festarolo, che terrà la statuetta fino alla prossima celebrazione primaverile e i membri, di solito tre, del comitato organizzatore della festa, in carica per un anno intero. I loro compiti sono importanti e impegnativi, a cominciare dalla raccolta delle risorse economiche per far fronte ai numerosi capitoli di spesa. Essi riguardano principalmente il complesso bandistico e il concerto serale, le luminarie e i fuochi d’artificio, la distribuzione di rinfreschi a tutti i presenti e a volte iniziative concernenti la storia del paese, con le sue radici culturali da valorizzare e salvaguardare.

Il saggio è stato estrapolato dal libro Acque, pietre, fuochi, alberi, Rituali di
guarigione nei santuari e luoghi di culto del Lazio, a cura di Elisabetta Silvestrini,
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio,
DiVirgilio editore, Roma 2014.
Il testo, tranne un aggiornamento dovuto a successive ricerche sul campo, è riportato fedelmente, mentre diversa è l’impaginazione, anche perché sono state aggiunte molte altre foto, oltre quelle già pubblicate.

NOTE

1 Rivera 1988, p.265.
2 Caronti 1964, p.184. Tutte le fonti orali citate sono state raccolte a Subiaco e ad Arcinazzo Romano e si riferiscono agli anni 1977-1979.
3“Tieni compare, ti do un figlio pagano e tu me lo fai cristiano - tieni comare mi hai dato un figlio pagano e te l’ho fatto cristiano”.
4 Di Nola 1983, p.39. Il testo approfondisce l’argomento sotto molteplici aspetti ed è corredato di ampia bibliografia. Nella vasta ricognizione sulla diffusione europea del rito non compare alcun esempio riferito al Lazio o cenno al sito in questione.
5 Di Nola 1983, p.97.
6 Cattabiani 1989, p.246.
7 “Come voto per la libertà Sesto Azio Dionisio offrì in dono al santo Silvano una statua con piedistallo”.
8 MENEGHETTI 2012, p.225 Traduzione: Nel nome del Padre , del Figlio e dello Spirito Santo amen. Cristo, San Pietro e San Sisto andavano per una via. Cristo disse: “Ho sentito una voce”. San Pietro disse: “Anch’io l’ho udita”. San Sisto aggiunse: ”Anch’io l’ho udita”. Cristo disse: ” Vai Sisto”. Sisto andò e tornò da Cristo. Cristo chiese: ”Che novità Sisto?”. “Signore, una cosa terribile, (il serpente) il figlio del diavolo e nipote di Silvano ha morso un cristiano”. Cristo ordinò: ” Fermati Sisto, Pietro porti l’acqua e Cristo la benedica e Sisto, che portò il messaggio, la beva: sano e salvo sia il cristiano che è morsicato”.
9 Rivera 1988, p.125.
10 Toschi 1967, p.40.
11 Rivera 1988, p.136.
12 Giancristofaro 1995, p. 98.
13 Giancristofaro 1995, p. 94.
14 Giardini-Ridolfi-Casali 1999, p.59.
15 AA.VV. 1997, p. 54.
16 AA.VV. 2012, p. 3.
17 Giardini-Ridolfi-Casali 1999, p. 38.
18 Viàn s.d. (www.orvinio.it).
19 Del Vescovo, blog dell’autore (www.paesisabini.altervista.org).
20 Recipiente cilindrico di legno, di capienza diversa secondo i luoghi, era usato per misurare i cereali. Nell’area turanense e zone limitrofe corrispondeva per il grano a 20 Kg e per il granturco a Kg 22,200.
21 Nell’interno della cavità vi è un unico altare e sopra la nicchia, che ospita una moderna statua dell’Angelo, compare la data 1791.
22 Cattabiani 1989, p.295. I Longobardi nel VII secolo dedicarono la grotta all’Arcangelo.

Bibliografia

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AA.VV. (1997), A San Famiano. Sonetti, Madrigali e Preghiere, Ronciglione (VT), Tipolitografia A.Spada.

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BONIFAZIO G. (2012), «Aequa», n.51, Il culto di San Michele Arcangelo a Montorio in Valle e a Colli di Monte Bove. Vedi anche nella sezione Pubblicazioni del sito

Caronti L. (1964), Subiaco nel turismo, nell’arte, nella storia, Roma, Lux.

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Toschi P. (1967), Il folklore, Milano, Touring Club Italiano.

Viàn S., Abbazia di Santa Maria del Piano, in www.orvinio.it.